Morte del cane per errore del veterinario: ogni tanto si ritorna indietro di qualche casella

Riflessioni sull’evoluzione giurisprudenziale del danno non patrimoniale per perdita dell’animale d’affezione, che fa venire in mente il "gioco dell'oca".

La sentenza è la n. 347 del 2019. Il Tribunale quello civile di Rieti. Il tema è quello del danno patrimoniale e non patrimoniale per la perdita dell’animale d’affezione. Il primo riconosciuto,  il secondo no.


Partiamo dal fatto

Una contestata responsabilità per malpratica veterinaria. Un cane — dopo avere ingerito accidentalmente un qualcosa di anomalo — viene sottoposto alle cure del caso presso una clinica veterinaria. L’epilogo è purtroppo nefasto e il proprietario dell’animale fa causa ai veterinari intervenuti, ciascuno ritenuto responsabile per la propria parte. Oltre al risarcimento dei danni patrimoniali (accertati e liquidati), viene chiesto il risarcimento del danno non patrimoniale in ragione della depressione subita a seguito della perdita dell’animale,  quantificandolo in euro 10.000,00.


La decisione del Tribunale

Quest’ultimo, come anticipato, non riconosce il (solo) danno non patrimoniale in favore del proprietario del cane. La condotta dei convenuti non integra gli estremi di alcun reato e la morte di un animale non costituisce lesione di un valore della persona costituzionalmente protetto. Il Tribunale reatino precisa che gli interessi della persona di rango costituzionale sono solo i diritti fondamentali dell’individuo e tra questi non rientra l’affezione, pur intensa, che si possa provare per un animale. 

Passo indietro della giurisprudenza? Ritorno del fantasma della notte di San Martino che decretò la morte del danno esistenziale? Oppure, più semplicemente, pericolosa (in)certezza del diritto?

Siamo alle solite. Quanto vale quell’affezione, pure intensa, che si può provare per un animale alla quale allude il Tribunale di Rieti?

Si impongono, per il dispiacere di chi legge, alcune considerazioni di carattere generale riguardo proprio alla evoluzione del danno non patrimoniale, quella tipologia di danno cioè che non ha un controvalore economico.

L’articolo di riferimento è il 2059 del codice civile per cui il danno non patrimoniale viene risarcito nelle sole ipotesi espressamente previste dalla legge. E l’ ipotesi di avere commesso  un reato è una di quelle (motivo per il quale il Tribunale di Rieti ha avuto gioco facile nel non riconoscere il danno non patrimoniale; il reato in danno degli animali è riconosciuto nella sola forma dolosa, esclusa nell’ipotesi de quo).

L’articolo 2059 c.c., proprio per la sua formulazione per così dire limitativa e tipica, è stato necessariamente ridimensionato dalla giurisprudenza che altrimenti avrebbe avuto serie — finanche insormontabili — difficoltà a riconoscere e liquidare un danno non patrimoniale. 

L’elaborazione giurisprudenziale lo ha inteso come riferibile solo ed esclusivamente al danno morale soggettivo identificabile con il “pretium doloris” di chi ha subito sofferenze morali derivanti da fatti particolarmente offensivi. La limitazione inserita nel 2059 cc non può riferirsi  agli altri tipi di danno, diversi dal patimento d’animo c.d. transeunte.

La storia è fin troppo nota. Il danno non patrimoniale inizia la sua frantumazione in diverse sottocategorie (danno biologico, esistenziale). Processo di frantumazione arrestato dalle Sezioni Unite della Cassazione (prima 2003 e poi 2008). Si arriva così a riconoscere due  sole forme di danno, il danno patrimoniale e quello non patrimoniale e all’interno di quest’ultimo confluiscono il il danno morale, biologico ed esistenziale (e le tabelle milanesi ne rappresenteranno la sintesi). 

Ma le sentenze gemelle del 2008 ci dicono anche, dedicando a tale argomentazione non più di un riga, che il danno per la perdita del proprio animale domestico costituisce un danno “bagatellare”, cioè futile, irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

Scende dunque la notte buia sulle aspettative di coloro che già nel 2008, osservando la costellazione normativa, nazionale e internazionale, credevano potesse trovare serenamente tutela quel rapporto particolare con il proprio animale d’affezione.

Rapporto che invece non pareva potere beneficiare, come suggerivano le stesse sentenze gemelle, di una interpretazione costituzionalmente orientata che avrebbe permesso di non fuggire più dall’articolo 2059 c.c (come era sino ad allora accaduto). Il rapporto uomo-animale rimaneva infatti inteso come un rapporto meramente privatistico e non godendo il diritto di proprietà di tutela costituzionale, non ne poteva altresì godere quella particolare relazione.

Il problema era e rimane quello di spostare l’oggetto del danno lamentato. Deducendo come causa del danno non tanto il diritto sul bene quanto il rapporto con l’animale si sarebbe potuta delineare un’offesa che, in virtù della coscienza sociale in un determinato momento storico (come recitano proprio le sentenze gemelle) andava a ripercuotersi sulla personalità dell’individuo determinandone una lesione dell’integrità morale e realizzatrice della persona umana, questa si riconducibile all’art. 2 della Costituzione.

Bisogna essere onesti. Il tema lo pretende. Nessun  problema se siamo davanti ad una ipotesi di reato. Nessun problema laddove il proprietario dell’animale accusi una vera e propria patologia riconducibile al danno biologico. Fuori da queste ipotesi, la perdita irreversibile di una presenza nella propria quotidianità come la negata possibilità di godere della compagnia di un animale determinano una lesione dell’integrità morale e realizzatrice della persona umana riconducibile all’art. 2 della Costituzione???

Se consideriamo l’art. 2 della nostra Costituzione non limitato a includere solo diritti tipicamente previsti dalla medesima Costituzione bensì aperto ad accogliere situazioni atipiche scaturenti dall’evoluzione del contesto sociale, non credo correremmo il rischio di una “overcompensation”.

Forse si realizzerebbe pienamente l’integrale riparazione del danno che altro non significa che giusta riparazione, con criteri di verifca quali la  dovuta dimostrazione del legame forte tra animale e essere umano e la rigorosa dimostrazione del pregiudizio subito. 

Se questa è la teoria, ammesso che lo sia, quale è lo stato dell’arte della giurisprudenza in tema di danno non patrimoniale per morte dell’animale d’affezione?

Se in un primo momento il campione di sentenze appare nettamente sbilanciato a favore delle pronunce che si collocano nel solco dell’orientamento delineato dalle Sezioni Unite di San Martino (negando quindi ogni spazio risarcitorio al danno derivante dalla lesione del rapporto uomo-animale) questa tendenza conosce una felice inversione man mano che, temporalmente, ci si allontana dal 2008, avvicinandosi ai giorni nostri. 

Un trend che ha però un preoccupante quanto inspiegabile e fastidioso (nel senso di inspiegabile) limite. Quello di essere limitato per la più parte ai giudici di merito (tribunali e corti di appello) incontrando, ancora, una certa ritrosia nella suprema corte di Cassazione.

Come se Piazza Cavour (sede della Corte di Cassazione) fosse impermeabile e impenetrabile da qualunque aria di cambiamento giunga dal basso (giudici di merito) e volesse riaffermare sempre e comunque quella sua funzione nomofilattica che, allo stato attuale, parrebbe non lasciare spazio ad altre interpretazioni del diritto positivo di settore.

Perché nonostante quella costellazione normativa a cui prima accennavo, forse più solenne che concreta, eccessivamente affollata da deroghe che diventano loro stesse regole, il diritto positivo oggi continua a dire che gli animali sono cose e che nonostante la disciplina pubblicistica che appresta loro tutela, gli animali non sono titolari di diritti. (quinta sezione penale della Cassazione, luglio 2019, in occasione della sentenza Green Hill). L’art. 2054 cc continua a citare l’obbligo di risarcimento in favore di persone e cose. Gli animali, ai quali l’Europa vuole giustamente aprire le gabbie, rimangono — almeno per il momento — confinati in quella dannata gabbia che è l’art. 810 cc.

Torniamo allora al punto di partenza di questa mia riflessione, e quindi alle motivazioni del Tribunale di Rieti che non hanno riconosciuto il danno non patrimoniale per la perdita del cane. Gli interessi della persona di rango costituzionale sono solo i diritti fondamentali dell’individuo e tra questi non rientra l’affezione, pur intensa, che si possa provare per un animale. 

Tale massima potrebbe anche significare che la lesione di un diritto, ancorché non classificabile come inviolabile e purché non produca danni patrimoniali, è comunque consentita. 

Ecco allora che come accade nel gioco dell’oca, può capitare che quando si arrivi alla casella della Corte di Cassazione, ci si ritrovi in un solo colpo ricacciati indietro di qualche casella. Qualche volta finanche al via. Ma, a guardare bene, anche prima di quel via, il danno non patrimoniale per la morte del proprio animale trovava riconoscimento.

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